Il Verdicchio

Cupramontana Capitale del Verdicchio

Come scusa, per il gran gusto che provano a bere e a strabere, quelli di Cupramontana (e i forestieri, me compreso, che ci vengono) additano una scritta che indica l’altezza di questo grosso borgo (meriterebbe ormai il nome di città): cinquecentosei metri sul livello del mare.
La mecca del buon vino
Se, nelle sere di festa, qualche canto aperto e pieno di gente che ha conosciuto il Verdicchio, giunse sino in piazza, a te che forestiero sei seduto a caffè, quelli del posto tiran fuori il solito argomento: più si sta in alto e più si beve, e citano la gente delle Alpi che per combattere la rigidità del clima nel quale è destinata a vivere s’imbottisce di grappa, quasi che quassù più che su un colle si fosse ai limiti delle nevi perenni. Del resto è naturale che a Cupra la vita sia intessuta di quel liquore che Noè, forse per primo, lanciò nel mondo di allora. Le valli che stanno intorno a Cupra son quelle che danno il vino caratteristico e pregiato che ormai è noto in questo mondo e in quell’altro (parlo dell’America s’intende) con il nome tipico di Verdicchio. I raccolti dell’uva qui sono ricordati, come altrove si ricordano quelli del grano, con cifre a più zeri. Si va da un massimo di settantacinquemila quintali d’uva messa in cantina ai cinquantamila degli anni di magra. Nei mesi di vendemmia c’è un acuto odore di mosto e di uva fresca, e per le stradette selciate che s’insinuano nel cuore del paese tra una chiesa in pietra e mattone e un palazzetto che mostra ancora qualche bizzarria del barocco, i carri di campagna, tinti a vivi colori, portano una nota vivida di sana e sincerissima folcloristica attualità. Vedi i tini e le botti pronti alla vendemmia; dagli antri delle case del borgo, che s’apron sulla strada, case che s’atteggiano a ville, ma dove, invece del salotto, al piano terra c’è l’ufficio del padrone e invece della biblioteca s’allargano al primo piano volte robuste sopra provviste copiose. La cucina maiolicata ha poi, come pezzo migliore del suo ammobiliamento, una cortina scura di prosciutti un po’ tozzi, di lonze legate strettamente e di salami, che pazienti aspettano. Aspettano di finire uno alla volta sul piatto di maiolica a fiori, quel piatto per il salato, tradizionale in ogni famiglia picena e che serve alla padrona di casa, per calmar l’appetito troppo aguzzo degli ospiti che capitano in casa all’improvviso e per tenerli a bada sino a che nel paiolo bollano le tagliatelle “buttate giù” allora allora.

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Precisazioni e speranze

Il Podestà di Cupramontana mi mostra, nella Residenza Municipale, preziosi incunaboli e libri miniati, un quadro del Fazi e uno di Bartolini, e poi esce con me sulla piazza. E’ Un Podestà questo che non si ferma a guardare le cose del passato (che pur ammira e apprezza), ma un Podestà che con orgoglio mostra le ceste dei bozzoli d’oro che s’avviano verso il Centro di raccolta, e le valli ricchissime di soprassuoli giù per i fianchi del colle. Paese ordinato e laborioso, paese che si veste una volta all’anno a festa per la Sagra dell’Uva, giorno nel quale tutti gli abitanti dei Castelli di Jesi vengono a Cupramontana  quasi a testimoniare questo luogo, capitale del Verdicchio, la loro devozione di sudditi fedeli. E del Verdicchio, mi parla un intenditore famoso, un uomo che nell’assaggio distingue l’anno nel quale il vino è stato messo in bottiglia, e da quali delle valli proviene. Il Podestà sull’argomento è stato riservatissimo. Segno che qualcosa c’è in giro in proposito, ma l’uomo qualunque, l’assaggiatore, invece mi parla chiaro e preciso. Merito forse della bottiglia che sul tavolo ci divide. Il vino tipo delle due valli, il verdicchio, può essere oro, per la Nazione e per i produttori. Oro, perché è esportabile (e lo sanno i nord americani ai quali dopo il proibizionismo fa brutti scherzi), oro per quelli che lo producono, in quanto, se sarà disciplinata la produzione e la vendita attraverso la costituzione in Cupramontana di un Enopolio, dal produttore al consumatore, il passo avrà breve e verranno eliminati quei famosi intermediari (che il Duce ha chiamato diaframmi) veri parassiti di una sana produzione. Del resto, la costituzione di un Enopolio, avrebbe vantaggio di primo ordine agli effetti della disciplina della produzione, del credito che potrebbe essere concesso ai produttori all’atto del conferimento dell’uva, alla possibilità di presentare per l’esportazione quantitativi rilevanti e uniformi. La costituzione di un Enopolio poi consentirebbe lo svolgimento di un programma di propaganda e di penetrazione in mercati nazionali e stranieri che oggi ancora ignorano il Verdicchio e nei quali la privata iniziativa non ha forze e mezzi sufficienti per farlo conoscere. L’Enopolio è dunque l’aspirazione giusta, mi dice l’amico intenditore, di quanti credono nella possibilità vinicole della zona, e Cupramontana, già nota per la Festa dell’uva e per l’eccellenza dei suoi prodotti, i migliori di tutta la produzione dei Castelli, avrà l’Enopolio. Il silenzio rigoroso che il Podestà mantiene sull’argomento, e la sua riservatezza a parlarne, sono la prova che le trattative in corso sono a buon punto”.

 

Guido Podaliri in, La Tribuna, anno 57, Roma, giovedì 9 luglio 1939-XVII, n.159, p.4.